Torna a settembre la mostra Ante Operam a Palazzo Marescalchi Belli

2022-10-22 20:37:15 By : Ms. ouyang ouyang

Riapre a partire dal primo settembre la mostra Ante Operam, primo progetto outdoor di pianobi, centro sperimentale di arte contemporanea di Isabella Vitale, in collaborazione con Flaminia Bonifaci, responsabile di fontana più stella house (appartamenti privati all’interno di Palazzo Marescalchi Belli in pieno centro storico di Roma, al numero 1 di Piazza del Porto di Ripetta). La mostra si svolge all’interno del 5° e 6° piano del palazzo, appartamenti caduti in disuso da molti anni e rilevati recentemente da Flaminia Bonifaci, che comprendono un doppio terrazzo dal quale si può godere di un meraviglioso affaccio sul centro storico e sul fiume Tevere. La collettiva accoglie i lavori di sei artisti: Eleonora Cerri Pecorella, Pierre Gaignard, Luca Grechi, Lulù Nuti, Cristiana Pacchiarotti, Julien Prévieux.

Si tratta di un progetto tentacolare che ha come parola chiave il termine “connessione” – come ci spiega la curatrice Vitale – mette infatti in dialogo più realtà: pianobi, la proprietaria dell’appartamento, gli artisti, studenti e studentesse dell’Accademia di Belle Arti di via di Ripetta e di Storia dell’Arte contemporanea della Sapienza, la Litografia Bulla. Nasce da desideri che si incontrano in un progetto comune, fatto di scambio, crescita e formazione collettiva, con l’obiettivo di tracciare un’idea, vivendo a tutti gli effetti la dimensione dell’ante operam cui fa riferimento il titolo della mostra. L’esposizione ha un carattere corale grazie soprattutto alla presenza degli studenti, che si sono trasformati a seconda delle necessità in curatori dei testi critici e aiutanti degli artisti anche nelle mansioni più pratiche. “Gli studenti hanno imparato a fare le cianotipie, a mescolare il cemento, a creare pigmenti, a mettere una vite con il trapano, anche queste cose fanno parte della formazione” spiega la curatrice, la quale, provenendo da una doppia formazione tecnico-pratica (Accademia di Belle Arti di Roma) e teorica (Storia dell’Arte alla Sapienza), si rispecchia completamente nei due percorsi di studio dei ragazzi, nonché nelle due facies  che pianobi presenta (studio-luogo di ricerca, atelier-spazio espositivo).

La “trasformazione” è probabilmente il tema immanente alla mostra: il fluire del tempo, la stratificazione architettonica che la città di Roma ha vissuto e vive tuttora, il cambiamento del quartiere in cui si inserisce la mostra (dove anticamente era presente il settecentesco Porto di Ripetta), la presenza del fiume Tevere che ha condizionato il vivere sociale della città, la casa in stato rustico – emblema di un processo in divenire, dell’idea che diviene azione, dell’ante operam che diventa opera e post operam.   

L’esposizione è calata all’interno di un appartamento in stato di parziale smantellamento, dove compaiono frammenti di carte da parati accanto a mattoni vivi, mura in disfacimento, pavimenti senza copertura. Il tempo qui sembra sospeso. Si intitola Ante Operam attingendo al termine tecnico architettonico usato per indicare un edificio prima della sua ristrutturazione, lo stato in cui si trova lo stabile in questo momento. Dopo la mostra lo spazio verrà trasformato in qualcos’altro, per questo motivo si può dire che l’esposizione sia “densamente temporanea”: gli artisti giocano con il tema del tempo e dell’effimero, del fluire delle acque del Tevere, cercando di collegare strettamente il proprio lavoro al luogo in cui lo inseriscono.  

Entrando nell’appartamento e girando un angolo, compare uno spazio ritirato e intimo nel quale si dispiega l’opera installativa di Cristiana Pacchiarotti. Si tratta di un tappeto di mattoni di ceramica, cotti dall’artista in un’antica fornace di Ferentino – Pacchiarotti ha una formazione da architetto ma approccia i diversi materiali che incontra nei suoi lavori come un’artigiana, cercando di apprenderne la tecnica in prima persona, e intessendo un legame sincero con il territorio e con chi lo abita. Sui mattoni sono stati impressi dei centrini carichi di ricordi, realizzati a mano e regalati dalla nonna all’artista come corredo di nozze. Il pavimento realizzato (in questo ambiente dove un pavimento non c’è più) ricrea così la proiezione di un immaginario cielo stellato colmo di affetti e di memoria. L’artista ha cosparso l’opera di blu minerale, lavando più volte i mattoni in modo tale da far penetrare il pigmento all’interno delle fenditure, in profondità. Il colore risulta però impermanente e, nel corso della mostra, da vivido quale era all’inizio diviene più leggero e a macchie. Immagine iconica del fluire del tempo, come delle acque, sembra riflettere sul “panta rei” eracliteo che attraversa l’esistenza umana.  

Il tema della memoria torna nella seconda opera in mostra dell’artista, questa volta in un senso più storico. Pacchiarotti ha realizzato dei libri di ceramica, sui quali ha riportato, per mezzo di calchi, stralci delle colonne che si trovano sulla piazza antistante il palazzo, e che anticamente erano in prossimità del Porto di Ripetta. Immergendo la ceramica nello smalto ha così messo in evidenza le scanalature che segnano i livelli delle esondazioni del Tevere presenti sulle colonne stesse.

Il passaggio da una stanza all’altra dell’appartamento è accompagnato dall’intervento delicato, ritmico e lirico di Lulù Nuti: dei pilastri fitomorfi sottili ed eleganti, che sorreggono idealmente il soffitto dell’edificio nei suoi punti nevralgici (individuati da alcuni architetti). Sono dei tubolari di foglie di platano – raccolte dall’artista sul Lungotevere – galvanizzati in rame: forti e fragili strutture che catturano la luce, montate su tubi di metallo di origine industriale. Rimanendo fedele ad un’idea di economia del gesto, l’artista ha eternato le foglie – segno di una “nostalgia preventiva”, come lei la definisce – in un unico passaggio, ricoprendole di un sottile strato di metallo.

La sua opera viaggia nel tempo. Da un lato le sculture sono una proiezione di una futura ristrutturazione dello spazio, ricalcano infatti i rinforzi che andrebbero posizionati all’interno dell’appartamento. Dall’altro esse, espressione di un’immagine che sembra essere da sempre parte dello spazio, ingannano il visitatore, facendo intendere che i loro steli siano dei pilastri preesistenti. Il movimento ascendente delle sottili colonne-rami, che si inerpicano fino a sostenere il centro della capriata, riproduce all’interno della sala un’atmosfera magica e sacra. Richiama alla mente forme arcaiche, già vissute nell’inconscio collettivo, che lo spettatore sente di conoscere, in un’intimità profonda e ancestrale.

In fondo alla sala longitudinale scandita dalle sculture di Nuti appare il murales di Luca Grechi, che si materializza come un monocromo blu, un segno nello spazio, una profondità. L’artista ha scelto la tecnica dell’affresco, dialogando strettamente con l’ambiente della casa, caratterizzato dai mattoni vivi. La calce è diventata così la base pittorica del suo lavoro, che si inserisce nel luogo con tutti gli aspetti di un’opera installativa. Grechi ha utilizzato un pigmento ad acqua, senza aggiungere un legante, in questo modo il colore rimane puro ma è poco durevole nel tempo, riproducendo la caducità dell’ambiente in cui si trova. La pratica pittorica dell’artista è caratterizzata da un lungo e lento processo, fatto di stratificazioni molteplici di sottili e liquide velature di colore, distribuite fino a raggiungere un equilibrio, un’emotività sonora e vibrante. In questo caso il processo creativo è stato più rapido, mentale e gestuale. L’atto conclusivo dell’opera è stata la graffiatura della superficie, eseguita tramite l’utilizzo di un ferro trovato nell’appartamento che, come in un’intuizione finale, ha permesso all’artista di conferire alla rappresentazione più piani, facendo emergere a tratti i rossi e i gialli presenti negli strati sottostanti, e aggiungendo una figurazione segnica all’opera.  

Sulla destra della sala longitudinale, in un ambiente mansardato, Julien Prévieux presenta i suoi due lavori per la mostra: Dynamique de l’erreur (prime), Dinamique de l’erreur (seconde- Palazzo Marescalchi Belli). Prosegue la ricerca che lo accompagna da diversi anni (e che lo condusse a vincere il Prix Duchamp nel 2014) riguardante il tema del rapporto tra l’uomo e la macchina. Il primo lavoro consiste in un’opera site-specific, una scacchiera tracciata da linee di polvere di gesso blu ottenute con lo “spiccato” (utensile utilizzato in architettura), all’interno della quale dei ciottoli trovati nei dintorni del palazzo mimano la presenza delle pedine posizionate secondo lo schema di una famosa partita giocata e vinta nel 1977 dal supercomputer Deep Blue contro il campione russo Garry Kasparov. La riflessione sul rapporto ludico, di cooperazione o competizione tra uomo e macchina, e sull’errore commesso dall’uno o dall’altra, continua nella seconda opera in mostra dell’artista, frutto di una performance realizzata all’interno del palazzo: delle “cadute” simulate da Prévieux registrate da una tuta sensoriale da lui indossata. All’ “inciampo” umano – tenero “errore” commesso da bambini, ridicolo o tragico evento in età adulta – corrisponde l’ “errore” della macchina. Si è deciso di realizzare il grafico tratto dalla “cattura” del movimento all’interno dell’antichissima e celebre Litografia Bulla (dal 1818), mettendo a confronto l’artigianale tecnica rigorosamente manuale di quest’ultima con l’uso della tecnologia propria dell’artista. Il braccio meccanico che compone il disegno è stato posizionato sulla scheda litografica anziché sul semplice foglio: la biro, a contatto con la pietra (superficie non completamente liscia) in alcuni punti slitta causando una perdita di dati, un “errore” appunto. Le stampe dell’artista sono esposte nella finestra su strada della Litografia Bulla, parallelamente alla mostra.

Un raggio di luce ci accompagna nella veranda dove ha preso vita l’installazione-laboratorio di Pierre Gaignard. Un’opera performativa la sua, realizzata in 10 giorni: un vero e proprio studio da alchimista-bibliotecario sulla flora che caratterizza le sponde del Tevere a partire dal palazzo fino a percorrere 1000 metri verso nord. L’artista, messosi in contatto con alcune associazioni di botanici ed erboristi, ha compiuto delle giornate di esplorazione del fiume. Dopo un ampio approfondimento delle diverse specie nonché delle anomalie (come la presenza di piante esotiche probabilmente derivanti dalla caduta nel fiume di torsoli di frutti provenienti dall’estero), Gaignard ha raccolto un saggio di ogni pianta incontrata, realizzando infine una sorta di erbario, incastonando le piante all’interno delle vetrate che circondano la veranda. Con le piante commestibili (tra le quali radici, cortecce, piante fresche, menta, rosmarino, timo, la profumatissima artemisia) l’artista ha prodotto “Tenero Tevere”, l’amaro del fiume, che vuole essere un canto, una poesia, un distillato del sentimento talvolta contrastato (dolce-amaro) che i romani provano nei confronti del proprio fiume, e allo stesso tempo un’occasione di convivialità per chi partecipa alla mostra, che può assaggiarlo e sorseggiarlo durante la visita. Le stesse piante utilizzate nel liquore sono state messe in infusione nell’acqua all’interno di grandi ampolle sorrette dall’alto con delle corde che, come dei pendoli, si susseguono all’interno della veranda, facendola somigliare allo studio di un esperto alchimista. Ogni pianta ha dato origine ad una sfumatura di colore, tra il verde e il marrone, così l’artista ha messo in opera anche un catalogo tonale del fiume e della sua flora. Al di sotto delle ampolle sono state raccolte le piante in ampi cesti, e lasciati il pentolone, l’imbuto e tutto l’occorrente servito per la realizzazione del liquore in situ.

Gaignard opera spesso come un archivista nel suo fare artistico, attraversando media e materiali differenti. In questo caso si è trasformato in un botanico, accogliendo anche la tradizione contadina dei propri nonni, che l’hanno iniziato ad un rapporto armonico ed empatico con la natura – come ci racconta. L’assaggio del Tevere che l’azione dell’artista propone porta con sé una visione del mondo in cui l’uomo è completamente immerso nella natura, risveglia l’animo dei cittadini romani sui temi ambientali, ma più semplicemente sulla propria essenza di creature figlie della madre terra, e sulla propria appartenenza ad un determinato territorio e a particolari acque.

Conclude idealmente la visita l’ascesa al terrazzino più alto del palazzo (raggiunto tramite una piccola scala a chiocciola) dove si posa la poetica installazione di Eleonora Cerri Pecorella: due cianotipie di cieli realizzate su tessuto, stese su un filo metallico e fissate con delle mollette, a mo’ di lenzuola al sole. Cielo vero e cielo rappresentato si incontrano, facendo soffermare lo spettatore sull’attimo che la fotografia immortala, catturando un frammento spazio-temporale, un hic et nunc nel fluire del tempo e della natura. La suggestione dei panni stesi ad asciugare ci regala un sentimento intimo, di gesti e rituali vissuti nel quotidiano e nella condivisione familiare, nonché osservati più volte in alcuni film in bianco e nero. L’artista ha già sperimentato in passato la tecnica materica della cianotipia durante i propri studi in Accademia, ora la riprende con uno sguardo nuovo, frutto delle sue ultime riflessioni sviluppate a partire dal primo lockdown del 2020. Nei mesi di quarantena collettiva di quell’anno, ritrovatasi rinchiusa in casa, la fotografa ha vissuto il desiderio irrefrenabile di uscire ad osservare con il suo obiettivo ciò che stava accadendo, e ha così scoperto una delle necessità prime dell’essere umano in condizioni di precarietà: la possibilità di aprirsi un varco verso una dimensione altra, mentale, ma raggiunta anche attraverso un supporto fisico che potrebbe essere un’immagine. Sono nati così i suoi “Cieli portatili”, foto di cieli costituiti da più fogli A4 (facilmente stampabili a casa o in copisteria), che permettano a tutti e a ciascuno di costruire il proprio cielo, il proprio spiraglio, il proprio volo alla ricerca di una nuova dimensione. La scelta del cielo è determinata dalla constatazione che durante la pandemia ciascuno di noi aveva un contatto con l’esterno e con il tempo che passa grazie alle finestre, e all’osservazione delle nuvole nel loro trasformarsi. Senza dubbio questo soggetto richiama anche uno slancio verso l’alto, l’infinito, verso ciò che trascende ogni situazione contingente e reale, in un anelito profondo che traccia una nuova possibilità.   

Ante Operam Pianobi outdoor project #1 Eleonora Cerri Pecorella, Pierre Gaignard, Luca Grechi, Lulù Nuti, Cristiana Pacchiarotti, Julien Prévieux 1-30 settembre 2022 Visitabile su appuntamento scrivendo a [email protected] Palazzo Marescalchi Belli – Piazza del Porto di Ripetta, 1

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