Ricorrente

2022-10-22 20:36:06 By : Ms. Lisa Yan

Venerdì 14 Ottobre, secondo giorno del progetto. Un errore di tempo: metà eroi, metà leggende orali

Quattro cartoline incollate al muro. In fila, appena sopra al materasso. Il tempo di metterle a fuoco, attimi casuali arancioni di folklore incipriati, che la salat irrompe da lontano e porta con sé il primo raggio di Sole. La preghiera del mattino. Mentre qualcuno alza le saracinesche, prepara il caffè o perde un autobus, molti sono rivolti alla Ka ‘ba , di Mecca. Il canto rimbomba da un megafono distorto e scalfisce i vetri alle finestre, i cavi scoperti e raccoglie agreste cori di rimando dai palazzi del quartiere. I calcoli trigonometrici sono molto importanti nelle società islamiche. Quando non si può vedere il cielo, serve qualcuno che calcoli esattamente l’inizio e la fine dell’alba, per orientare la durata del rituale. Teologia aritmetica. Ma non ci sono nuvole, oggi. Il cielo s’è scoperto in favore della preghiera. La mattina si sveglia lentamente sedotta dai canti, dall’odore dei biscotti e dal tè. Dalla finestra, rami contorti e parabole dai tetti che sono girasoli bianchi dei palazzi. E finestre. Tutte quadrate.

Iniziamo con i nomi, di nuovo, le presentazioni che la sera tarda di ieri ha obliato, poi si passa presto allo scambio di aspettative, alle paure che nutriamo nei confronti di questa settimana e si crea una rete intricata di sguardi indecifrabili, intese, sorrisi internazionali ed esperienze condivise, supposte, appena germogliate. Qualcuno è al suo primo progetto, qualcuno addirittura al novantesimo. La rete, inoltre, è fisica, perché mentre parliamo ci passiamo una matassa, in ordine sparso e si può riavvolgere la conversazione a vista, ma non possiamo muoverci perché ognuno regge un punto del filo, un frangente del mattino e lo impressiona tra le falangi. Una ragnatela di vite. Il silenzio tra ogni intervento è teso delle storie sospese. 

Più volte, nel corso del giorno, ritornano curiosità, domande timide sulla lotta curda, sulla resistenza delle donne, sull’oppressione e l’identità di una nazione occupata. Tutta la città sarà in stallo, domani, ci dice U. alla fine, prendendosi un momento per rispondere a tutti. Col sorriso che da ieri abbiamo imparato a conoscere e gli occhi spalancati a rapire ogni attenzione nei paraggi. È generoso coi dettagli, non vuole lasciare niente di non detto, ma non lo fa pesare. Nessuna domanda è scomoda se si vuole conoscere la storia della loro resistenza. Ascoltiamo in religioso silenzioso.

I compagni curdi eletti, ora sono in prigione. È la strategia turca, annuisce, si: dichiarare terrorista ogni partito democraticamente eletto. L’anno scorso si girava per le strade e si ripeteva la propaganda “ non votate per i curdi, tanto in una settimana saranno tutti in carcere ”. I curdi rispondevano “ anche fosse solo per un giorno, dimostreremo alla nostra popolazione che siamo ancora qua ”. Dal 2016 Diyarbakir non ha più un sindaco.

Al momento in cui scrivo, più di diecimila politici curdi sono in carcere. Non civili, politici. In questi mesi, anni, non hanno ritrattato una parola, non sono tornati indietro di un solo passo. Sconteranno la pena fino in fondo. E mentre lo dice, sulle teste dei ragazzi si dipingono delle figure mitologiche, uomini metà eroi, metà leggende orali e ci sembra impossibile che esistano persone del genere e va bene così. Ma questa è una capitale curda, i turchi sono in minoranza, e la città è cosciente, silente, come il rettile che osserva la preda, ma sa che non è ancora il momento d’attaccare; quindi si finge anche in svantaggio, se serve.

Domani accoglieranno Erdogan. In silenzio. Certo, molti lo celebreranno, radici religiose e favori politici elargiti in questi vent’anni di governo hanno creato quella minoranza silenziosa che decide sul genocidio e l’oppressione di un’intera popolazione. Ma questo è un’altra storia. Detto ciò, oggi potremo visitare la città liberamente, domani no. Le lezioni vengono rimandate a domani col tacito consenso di tutti. I ragazzi apparecchiano. U. ci parla di un ragazzo ucciso il mese scorso, dalla polizia, le sue ossa sono state restituite ai genitori in una scatola. Senza appetito, pranziamo. 

Superate le due strade principali, il dedalo curdo di cemento armato si spoglia in vie sempre più convulse. Una geometria in odore di Escher che invita alla corsa senza direzione, tra mura spoglie e bazar, café interni, nascosti nei cortili. Bambini che giocano a pallone avanzando lungo le vie, come a cercare una porta in cui segnare. E in pochi minuti ci perdiamo. Ogni strada che imbocchiamo, siamo sempre meno. Ma non ci diamo peso, sembra perfettamente naturale.

Un taxi parcheggia vicino a un ponteggio e per poco non lo butta giù. Gli operai, da sopra, ringraziano qualcuno ancora più in sù, forse Dio. Negozi di elettronica espongono tavoli sgombri e Nokia N70 senza tasti. Carretti vendono tè, passanti sfoggiano piramidi di  halka tatl?  in equilibrio sulla testa. Negozi di ventilatori, di spezie, di tessuti e collane. Western Union a tre piani collassano su aziende tessili di intimo con i lavoratori all’opera, a vista, vecchie affacciate alla finestre inferriate sornione spiano tra le tende di pizzo, un palazzo di mattoni a vista e poi gatti, ovunque, giovani, malati, spelati, randagissimi e fieri, usano le vie come una grande unica dimora. Saltano da una finestra all’altra, da un palazzo a un balcone, scendono dalle scale e spariscono sotto un carro parcheggiato. “ Almeno loro sono indipendenti ” si nasconde in un riso amaro U. 

Ci porta in un cortile di pietra dove aspettano composti tre anziani  dengbêj , i cantastorie, depositari del patrimonio culturale curdo, tramandato a voce dalla notte dei tempi, i tempi dei matrimoni pastorali e dei pellegrinaggi di pianura. Sorridono, aspettano che ci sediamo e intanto, meccanicamente, rigirano velocissimi i  misbahah  da trentatré grani, i rosari anti-stress. Tradiscono un’ancestrale intesa dai pochi sguardi che si scambiano, seduti in fila su dei divani di legno coi cuscini azzurri sgualciti. E partono assieme, automaticamente.

Cantano di antiche leggende. Di storie d’amore e, in quanto tali, necessariamente drammatiche. Atonali, accompagnati da sporadici gesti e sorrisi, tappano un orecchio con la mano, per sentire meglio. A volte fanno volteggiare il  misbahah  tra le mani e sembrano le pale degli elicotteri che passano e che rubano loro la scena per qualche secondo. Cantano di quando i curdi hanno respinto l’ISIS a Kobane e tradisce il trasporto emotivo terminando in piedi, a pugno chiuso. La voce spezzata e gli occhi lucidi. L’orgoglio con cui ci condividono la loro cultura è lo stesso orgoglio e passione che una volta mettevano questi cantastorie quando sceglievano l’allievo a cui tramandare la loro cultura.

Ora che Erdogan fa di tutto per contrastarli, annientarli e sradicarli e solo su Radio Yerevan, dall’Armenia, si possono sentire i loro canti, chiedono a tutti noi di diventare allievi e portavoce della cultura curda. Conosciamo A., per il suo attivismo ha fatto vent’anni e sette giorni di carcere, molti dei quali in isolamento. Sorride, sfoglia un giornale e gioca con dei bambini. È tranquillo. “ Non ho perso i miei anni ”, dice, “ Quello che ho dato era tutto ciò che potevo dare per il mio popolo ”. Allora esistono davvero, gli uomini metà eroi, metà leggende orali. E mentre i vecchi continuano coi canti, alcuni dei quali a volte possono raggiungere anche i quaranta minuti, un uomo curvo serve a tutti dei bicchieri bollenti,  kaçak çay , il tè illegale dell’Iraq che tinge d’ambra arancione il cortile. Inspiro a pieni polmoni. L’odore forte li riempie e rapisce in un luogo fuori dal tempo. Lo stesso odore, le stesse melodie sono state assaporate da milioni di persone, per migliaia di anni. E le spire di fumo danzano al tempo che non passa nelle tradizioni. Forse è questa l’immortalità. Il resto è veloce, confuso. 

Riprendiamo a camminare e non smettiamo più. Una chiesa armena restaurata da poco, senza più armeni, sterminati in un genocidio che i libri non conservano. La più grande muraglia dopo quella cinese, alle porte di Diyarbakir, restaurata con materiali raffazzonati, intenzionalmente, solo per umiliare la memoria curda stando ad alcune ragazze di passaggio. Spiedini di carne e kebab di pollo e macchine della polizia con scorta che le segue a piedi. Chiese romane con installazioni 3D e balli per strada. Neonati inseriti nelle angurie. Un panorama verde e infinito al tramonto sui minareti e l’università di letteratura e il fiume Tigri che dissetò le prime civiltà urbane, stagliarsi come una lingua contorta tra gli alberi.

Eppure il tempo passa. La tradizione qui, è resistenza attiva. La memoria è l’unico strumento per costruire un futuro. Ce lo ricorda U. quando giungiamo in una strada più nuova delle altre. Ma che nuova, immacolata. Case scenografiche e deserte, tutte uguali. Improbabili boutique e ristoranti coi coperti apparecchiati dal martino. Sembra il set di un film che è stato lasciato a metà. Bandiere turche a ogni finestra.

Ma qua si è combattuto. Era stato tutto raso al suolo dalle bombe. Fino a poco fa restavano solo le macerie e i cadaveri dei giovani. Su questi cadaveri, Erdogan ha ricostruito il quartiere da capo. Ha cancellato il passato, riscritto la storia. Per i turisti che arrivano qua e possono comprare collanine e tailleur senza pensieri. La via dello shopping. Ma la memoria insidia le strade come il fiore col marciapiede ed ecco che dietro i cartelli istituzionali sbucano i tetti dilaniati dalle bombe, le armature bruciate dei palazzi. Appena dietro il negozio, appena eretto, si intravedono i mattoni di una casa distrutta. La memoria è una lingua. La memoria è una difesa. La memoria è un’arma. La memoria è un’eredità e resistenza. Lo dimostra U. che mentre cammina, non vede le stesse finestre e gli stessi ristoranti che vediamo noi. No, lui ha un passato e per questo vede il futuro. Possono cancellarlo dalla strada, ma non dai suoi occhi. Ed è una lezione che non scorderò.

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