Venezia, occupato il capannone simbolo delle lotte sindacali. Gli operai: «Continuiamo a gestirlo noi» - CorrieredelVeneto.it

2022-10-22 21:06:08 By : Ms. Heny pei

l coro della Fenice durante l’esibizione del 2018 nel Capannone. Alle pareti quadri, striscioni e foto d’epoca

Nel Capannone del Petrolchimico di Marghera – il capanòn , come lo chiamano tutti – c’è la pila di materassi gonfiabili sui quali da tre settimane dormono le tute blu che occupano lo stabile . A pochi metri, addossato a una parete, il grande striscione rosso preparato dagli operai il 5 luglio del 1981. C’è scritto: «I nazisti delle Br hanno assassinato Taliercio. I lavoratori del petrolchimico contro il terrorismo». Non era facile prendere posizione contro le Brigate Rosse, che anche qui godevano di simpatie più o meno sommerse. Figuriamoci paragonarle ai nazisti. Eppure, fu una delle tante «prime volte» che ebbero come scenario questo scatolone di cemento costruito nel 1969 da quella che all’epoca si chiamava ancora Montedison , al termine di un difficile accordo coi lavoratori che protestavano perché non disponevano di un luogo dove fare le assemblee, quando ancora il diritto all’assemblea non esisteva. Fu sancito dallo statuto dei lavoratori l’anno seguente. Ma nel frattempo, Marghera aveva già il suo capanòn.

Un simbolo messo in discussione È un simbolo, quindi, da sempre gestito in totale autonomia dalle principali sigle sindacali . Ma all’improvviso la struttura che per oltre mezzo secolo ha fatto da palcoscenico alle battaglie operaie del Petrolchimico, sembra scricchiolare. Il Comune l’ha acquisita a un prezzo simbolico (si parla di 3.900 euro) da Eni Rewind, impegnandosi a ristrutturarlo. «Il sindaco si comporta da paròn e ci ha escluso da ogni trattativa – dice Davide Camuccio, il segretario Filctem – per quanto ne sappiamo p otrebbe usare questo spazio per ospitare la bocciofila o o corsi di danza del ventre. Una follia». Per questo la Cgil (col sostegno della Uil) ha occupato lo stabile: vogliono garanzie che quella rimarrà «casa loro». «Non ci rinunceremo senza lottare: se il Comune ha delle idee ci convochi, altrimenti siamo pronti a comprarlo per sistemarlo a spese nostre» rincara Daniele Giordano – pure lui della Cgil - dopo l’ennesima notte trascorsa tra quelle pareti rivestite di quadri e striscioni, tra i bidoni usati come tamburi alle manifestazioni e il «pulpito» dal quale parlò Berlinguer.

È un simbolo, quindi, da sempre gestito in totale autonomia dalle principali sigle sindacali

Luigi Brugnaro, il sindaco di Venezia, scrolla le spalle: «Mica voglio farci una discoteca: il Capannone fa parte della nostra storia. È una polemica incredibile. Il Comune investe 350mila euro per sistemarlo, mi aspettavo che il sindacato avrebbe fatto salti di gioia, e invece... Ma io non cedo ai ricatti. A tempo debito parlerò con chi non partecipa a questa sceneggiata , e poi decideremo la programmazione: assemblee sindacali, questo è ovvio, ma anche proposte culturali, letture di poesie, musica... Dev’essere un luogo di democrazia». In tanti stanno portando la loro solidarietà ai lavoratori. «Che continui a essere gestito dalle organizzazioni dei lavoratori non è questione di nostalgia – dice Massimo Cacciari -. Nessun’altra presenza deve abitarlo» . Qualche giorno fa è arrivato anche il regista Andrea Segre: «Qui va immaginato un futuro altro, al di là dell’abbandono. E va immaginato con chi l’ha vissuto».

Una storia fatta di lotta La levata di scudi era scontata. In fondo il capanòn è sempre stato tappa obbligata per chiunque abbia titolo per parlare di diritti delle tute blu . Un laboratorio di rivendicazioni ma anche di riflessione, e non solo perché da qui sono passati tutti i leader sindacali, da Lama a Carmiti, da Cofferati a Landini. Dopo l’omicidio di Sergio Gori, il vice-direttore del Petrolchimico, nel 1981 arrivò perfino il presidente della Repubblica, Sandro Pertini . E due anni prima, nello stabile fu il Patriarca a celebrare i funerali di Giorgio Rasia, Bruno Bigo e Lucio Oreda, i lavoratori uccisi dall’esplosione di una bombola di acido. Partecipò una folla immensa, che poi era (anche) quella degli abitanti di Ca’ Emiliani, a ridosso degli impianti, il «ghetto» costruito dal Fascismo con l’idea di infilarci i dissidenti politici. «Ci fu spedito anche mio nonno» ricorda il consigliere comunale Gianfranco Bettin, cresciuto a duecento metri dal capanòn. «Ci abitavano i reietti, gente che non si piegava, che se c’era da prendere colpi o da lanciare pietre lo faceva senza lamentarsi».

La levata di scudi era scontata. In fondo il capanòn è sempre stato tappa obbligata per chiunque abbia titolo per parlare di diritti delle tute blu

Le tre giornate di Marghera

E infatti fu tra quelle strade che divamparono le «Tre giornate di Marghera», la grande rivolta operaia del 197 0 , quando le tute blu bloccarono il cavalcavia e la stazione. «Il giorno dopo la celere caricò gli operai, col Capannone a fare da sfondo alle manganellate. Avevo 15 anni – dice Bettin – ci furono scontri violentissimi e ben presto la protesta investì i quartieri intorno». Si unirono i dipendenti della Montedison, poi scesero in campo i gruppi di Lotta Continua e Potere Operaio. Infine il sindacato, che dichiarò lo sciopero generale. «Solo a quel punto la proprietà si arrese e aprì la trattativa». Ma quelle quattro mura di cemento hanno un sacco di altre storie da raccontare. Il passato è lì, sulle foto in bianco e nero appese alle pareti. Il futuro invece ha i contorni incerti, come la nebbia che esce dalle ciminiere.

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